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RESIDENZE
ADAM VACKAR (2014)
RESIDENZE   ADAM VACKAR (2014)

Le attività di Adam Vackar si sono concentrate sul problema dell’inquinamento ambientale locale causato dall’abbandono di rifiuti di plastica nella natura, spesso incendiati per essere smaltiti. Coinvolgendo la popolazione locale in ogni step del suo processo di lavoro, Vackar ha sviluppato una serie di interventi e relazioni che lui chiama "transitive and participative objects". [download pdf][ leggi tutto ]

Behaviour and ecology, Adam Vackar, january 2014
Behaviour and ecology, Adam Vackar, january 2014
Behaviour and ecology, Adam Vackar, january 2014
Behaviour and ecology, Adam Vackar, january 2014
Behaviour and ecology, Adam Vackar, january 2014
Behaviour and ecology, Adam Vackar, january 2014
Behaviour and ecology, Adam Vackar, january 2014
Behaviour and ecology, Adam Vackar, january 2014
Behaviour and ecology, Adam Vackar, january 2014
Behaviour and ecology, Adam Vackar, january 2014
Behaviour and ecology, Adam Vackar, january 2014
Behaviour and ecology, Adam Vackar, january 2014
Behaviour and ecology, Adam Vackar, january 2014
Behaviour and ecology, Adam Vackar, january 2014

Sul binario di questa ricerca, l’artista ha lavorato sulla realizzazione di un tappeto e di uno djellaba fatti di rifiuti di plastica raccolti lungo il letto asciutto del fiume che attraversa Imlil.
Nella forma finale di patchwork, entrambi i lavori sono stati usati a loro volta come strumenti cerimoniali per alcune lectures e workshops itineranti sull’ecologia, interagendo con i bambini delle scuole dei Douar di Ait Souka e Aremd, e quelli del villaggio di Asni sulle colline che fanno da scenario all’associazione Tiwizi.
Coinvolgere gli insegnanti delle scuole e i membri delle associazioni è stato decisivo per familiarizzare i due oggetti con le attività, programmi e obiettivi formativi che tali strutture offrono ai loro ragazzi, diventando per loro, dunque, presenze oggettuali che quotidianamente richiamano loro l’immanenza concreta del problema ecologico.
Ecco che nella scuola elementare di Ait Souka, con l’intermediazione dell’insegnante, un gruppo di bambini e bambine si sono seduti sul tappeto, discutendo con l’artista di problemi ambientali, come la pericolosità di gettare le bottiglie e bruciare plastica all’aria aperta.
Allo stesso modo nella scuola superiore del villaggio di Aremd, l’insegnate ha raccolto decine di ragazzi e ragazze, che in cerchio intorno al tappeto, hanno partecipato alla lecture sul medesimo argomento. A fine giornata l’opera è stata donata alla struttura e installata nell’aula dedicata alle arti.
La volontà di entrare nei luoghi sensibili della formazione nasce dall’esigenza di radicare il più possibile i due lavori nella vita di queste comunità di montagna spostando l’attenzione sull’utilizzo della plastica da inquinante a opportunità e volontà di produrre meraviglia. Una volontà che, tuttavia, era già insita nel processo di costruzione stesso dei due lavori. Infatti l’artista, lasciando alle sarte di Imlil la totale libertà di espressione, ha delegato loro la direzione estetica che il tappeto e lo djellaba avrebbero dovuto acquisire.
Con grande sorpresa l’association féminine Tamgharte Noudrane, di cui queste ragazze rappresentano la forza lavoro, ha contribuito inoltre alla raccolta della materia prima, fornendo all’artista il materiale plastico che anch’esse hanno raccolto da terra lungo il quotidiano tragitto dalle loro case private al laboratorio.
Lavorando quindi non come esecutrici ma figure con un ruolo sostanziale, ha fatto in modo che l’approccio di Vackar si manifestasse con i tratti distintivi della sua ricerca sin dalle primissime fasi di costruzione del lavoro, ovvero portare l’opera da una rigida prospettiva oggettuale iniziale, a una generosa apertura relazionale conclusiva, da cui quindi, il termine da lui usato ”transitive and participatory objects”.
All’interno di questo scenario cambiato, l’osservatore trova in questi lavori le funzioni inaspettate di uno strumento cerimoniale, che agisce sulla sua identità, offrendosi dunque come piattaforma ideale più aperta, su cui è possibile intervenire attivamente, regalandole l’infinità di sensi ed esperienze umane che dalla sua interazione scaturiscono.
Tracciare quindi una parabola che ha visto mutare i due oggetti in meravigliose fioriture di intrecci sociali, è stata una metodologia che ha progressivamente portato Vackar a dare un carattere ancora più sociale e ambientale al progetto originario, spingendolo a usare tutte quelle bottiglie di plastica trovate durante il giornaliero lavoro di pulizia. Raccolte inizialmente per spirito ecologico, le bottiglie sono diventate scrigni improvvisati in cui ragazzi e bambini hanno inserito, su messaggi di carta, speranze per il futuro del loro ambiente.
Giunte sulle colline dell’associazione Tiwizi, le bottiglie sono state riempite di questi messaggi, e in una sorta di cerimonia, i bambini hanno vestito a turno lo djellaba, recitato a voce alta il loro desiderio e poi, una volta inserito nelle bottiglie, una dopo l’altra le hanno appese ad un albero spoglio centenario, decorandolo, che faceva da scenografia naturale a quell’area.
L’interrogativo che l’intera indagine di Vackar si è posta, riguarda - ancora più a fondo - la natura del comportamento umano, a cominciare proprio dall’ingenuità dei bambini che stanno già imparando gli stereotipi sociali e culturali locali. L’artista affronta questo tema manipolando due oggetti tipici del posto - anch’essi stereotipi - costruiti con gli elementi di scarto, stereotipi invece di un luogo che si appresta a porsi il problema della questione ambientale e del loro smaltimento.
L’artista si muove con la disinibizione di un popolo berbero alle porte della sua indipendenza, quasi estremizzando questa presunta qualità conquistata dai loro conquistatori, che hanno incluso, oltre gli arabi, anche romani e francesi.
Attualmente nelle scuole si studia, scrivendola e leggendola, la lingua berbera,  con un alfabeto lontano che oggi torna sui banchi di scuola riducendo di molto la distanza di tempo e spazio da cui proviene. Ecco che questi due elementi sono adoperati per proiettare il tappeto e lo djellaba verso una dimensione concettuale e installativa che li vede conquistare spazi lontani: il tappeto, nella scuola del villaggio di Armed, uno degli ultimi Douar popolati prima del lungo e desolato percorso verso il Toubkal.

(Testo di Alessandro Facente)